Se il concorso pubblico del comparto sanità prevede la «piena idoneità» alla mansione, può essere illegittimo o discriminatorio

 La piena idoneità alla mansione nel bando di concorso pubblico

Le Aziende del comparto della Sanità pubblicano bandi di concorso per personale di diverso livello che, sempre più di frequente, richiedono, quale condizione all’assunzione, il requisito della piena idoneità alla mansione ossia senza  limitazioni o prescrizioni.

Per effetto di questo requisito, rifiutano l’assunzione del candidato che, pur risultato vincitore o utilmente collocato in graduatoria, sia solo parzialmente idoneo alla mansione cioè possa svolgerla ma con limitazioni o prescrizioni.

Questo accade anche quando il profilo professionale è indicato nel bando in modo generico, come per esempio:  Operatore sociosanitario, Infermieree via dicendo.

 

La disciplina legale della idoneità alla mansione: la verifica della idoneità

La normativa sull’argomento è prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica n.220/2001 e dal  Decreto Legislativo n. 81/2008

I requisiti per la partecipazione ai concorsi del personale non dirigenziale del Servizio sanitario nazionale sono dettati, in particolare dall’art. 2 del DPR n. 220/2001 che contempla, tra gli altri, il requisito della idoneità fisica all’impiego e prevede che l’accertamento dell’idoneità sia effettuato da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, prima della immissione in servizio.

La verifica dell’idoneità fisica all’impiego del dipendente è regolata dagli articoli 41 e 42 del d.lgs 81/2008,  che sono applicati anche al settore pubblico.

Il medico competente può esprimere, in relazione alla mansione specifica, un giudizio di:

  • idoneità;
  • idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
  • inidoneità temporanea;
  • inidoneità permanente.

L’articolo 42 del Decreto citato impone al datore di lavoro di: «attuare le misure indicate dal medico competente» e, nel caso che queste misure prevedano una inidoneità alla mansione specifica, di  adibire il lavoratore a mansioni diverse ed equivalenti se possibili o, se non possibile, di destinarlo a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni che gli erano state inizialmente attribuite.

Il legislatore ha quindi compiuto un equo e bilanciato contemperamento tra il diritto alla salute e al lavoro e il diritto al libero esercizio dell’impresa.

La tutela del lavoratore prevede che sia a carico del datore di lavoro, in caso di inidoneità alla mansione specifica di provenienza, l’obbligo di ricercare altre soluzioni idonee a rispettarne i diritti.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza 1.7.2016, n. 13511

«[…] tale norma, riconoscendo nella fattispecie regolata il permanente conflitto tra il diritto alla salute e al lavoro, da una parte, e il diritto al libero esercizio dell’impresa, dall’altra, pone la necessità di un loro equo e bilanciato contemperamento, attraverso l’adibizione del lavoratore anche ed eventualmente a mansioni inferiori ed il compimento di quei processi di adattamento dell’assetto organizzativo che, nel quadro essenziale delle scelte di fondo operate dall’imprenditore, si rivelino con essi compatibili. […] in ciò esprimendosi anche l’osservanza dei canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto, le soluzioni che, all’interno del fondamentale piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti e idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore…»

 

Legittimità del concorso che prevede la piena idoneità

Il quadro normativo sopra descritto rende discutibile la previsione nel bando di concorso del requisito della piena idoneità alla mansione come condizione di assunzione e il conseguente rifiuto del datore di lavoro a immettere in servizioil lavoratore risultato idoneo a quella mansione solo parzialmente, con limitazioni o prescrizioni.

L’idoneità del lavoratore a ricoprire la mansione non può infatti essere esclusa dal solo giudizio espresso di idoneità parziale alla mansione con limitazioni.

Soprattutto quando la mansione bandita è riferita a profilo professionale genericamente descritto (come nell’esempio sopra: Operatore Sociosanitario, Infermiere), senza cioè alcun riferimento al reparto di destinazione, a particolari contenuti o modalità di erogazione della prestazione, a specifiche articolazioni di orario che possano risultare, in ipotesi, incompatibili con le disposte limitazioni o prescrizioni.

La legge (il citato art. 42 del d.lgs 81/2008), impone all’Amministrazione datrice di lavoro di attuare le misure indicate dal medico competente.

Anche se le limitazioni individuate dal medico competente fossero tali da impedire al lavoratore di svolgere alcune delle attività proprie della mansione oggetto di concorso, l’Amministrazione datrice di lavoro è tenuta a ricercare, ove possibile, le soluzioni idonee ad assicurare l’impiego del lavoratore come previsto dalla norma.

L’Amministrazione quindi non ha il potere di mutare il giudizio di idonietà con limitazioni in un giudizio di inidoneità.

Prevedere invece, quale condizione di assunzione, il requisito della idoneità fisica senza limitazioni e prescrizioni avrebbe quale conseguenza quella di escludere questo obbligo datoriale di ricercare soluzioni per realizzare il diritto al lavoro del candidato, imposto invece a tutti i datori di lavoro dalla legge.

Sotto altro profilo, il requisito, previsto in bando, della piena idoneità fisica all’impiego quale condizione di assunzione, va valutato anche in relazione al divieto di praticare una discriminazione diretta o indiretta a causa di handicap, divieto previsto dalDecreto legislativo n. 216/2003.

L’art.2 del Decreto parla infatti di discriminazione indiretta quando una disposizione, un atto apparentemente neutri potrebbero mettere le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Per rendere effettiva la parità di trattamento delle persone disabili in ambito lavorativo, quella norma impone al datore di lavoro di adottare «accomodamenti ragionevoli per garantire alle persone con disabilita’ la piena eguaglianza con gli altri lavoratori», cioè di compiere interventi idonei a eliminare la situazione di svantaggio dovuta alla condizione di disabilità del proprio dipendente.

Se quindi il bando di concorso richiede il requisito della piena idoneità per un profilo che può essere occupato da un candidato portatore di handicap o disabilità anche per effetto di opportuni accorgimenti o accomodamenti, quel requisito potrebbe essere considerato discriminatorio e il conseguente rifiuto all’assunzione espresso dall’amministrazione sulla base di quella sola condizione di bando, sarebbe illegittimo.

 

Paolo Perucco

 

Condizione di disabilità: divieto di discriminazione, accomodamenti ragionevoli e novità introdotte dal D. Lgs n.62/2024

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, impone agli Stati parti, tra i quali l’Italia:

  • di vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità;
  • di garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione, qualunque ne sia il fondamento;
  • di adottare tutti i provvedimenti appropriati per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli.

Le forme della discriminazione nel decreto del 2003

Nell’ordinamento giuridico italiano il principio di parità di trattamento delle persone con disabilità era già previsto, con riferimento all’occupazione e alle condizioni di lavoro, dal d.lgs n. 216/2003, che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 2000/78/CE e vietato qualsiasi discriminazione diretta o indiretta nei confronti di persone disabili. Il decreto precisa le diverse forme di discriminazione:

  1. discriminazione diretta quando per le condizioni di disabilità (o per religione, per convinzioni personali, per età, per nazionalità o per orientamento sessuale), una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga;
  2. discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone in condizioni di disabilità (e le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, nonché le persone di una particolare età o nazionalità o orientamento sessuale) in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

La parità di trattamento delle persone disabili

Lo stesso decreto per rendere effettiva la parità di trattamento delle persone disabili in ambito lavorativo, vieta al datore di lavoro di praticare qualsivoglia discriminazione.
Gli impone in particolare di adottare: «accomodamenti ragionevoli per garantire alle persone con disabilita’ la piena eguaglianza con gli altri lavoratori».

La legge quindi chiede al datore di lavoro di compiere interventi idonei a eliminare la situazione di svantaggio dovuta alla condizione di disabilità del proprio dipendente.

Sul punto, la Corte di Cassazione, con l’importante sentenza n. 6497/2021, ha chiarito che per accomodamenti ragionevoli debbano intendersi adeguamenti quali la sistemazione di locali, l’adozione di attrezzature, ritmi di lavoro e ripartizioni di compiti adeguati alle esigenze del lavoratore affetto da disabilità. Spetta al datore di lavoro anche fornire mezzi di formazione o di inquadramento. Per usare le parole della Corte, egli deve adottare: «adeguamenti organizzativi che si caratterizzino per la loro appropriatezza, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa».

La Corte ha quindi ritenuto illegittimo il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica di un lavoratore al quale il datore di lavoro non aveva fornito questi adeguamenti. Nel caso di specie, il il datore di lavoro non ha provato di aver svolto gli atti e le operazioni adatte a trovare l’accomodamento ragionevole richiesto dalla legge.

Il datore di lavoro, per la Cassazione non ha «compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto».

L’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli

La legge impone l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli al datore di lavoro, non solo per prevenire il licenziamento del dipendente disabile, ma anche per realizzare la parità di trattamento in tutti gli ambiti previsti dal d.lgs n.261/2003.

Il d.lgs n. 216/2003 persegue la condizione di parità con gli altri lavoratori in diversi ambiti, quali:

  • avanzamenti di carriera
  • salute e la sicurezza sul lavoro
  • ricollocamento
  • l’accesso all’occupazione a al lavoro.

La Suprema Corte nella stessa sentenza ha tuttavia chiarito che l’accomodamento deve essere ragionevole. La ragionevolezza sta nel trovare una soluzione organizzativa praticabile che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio tollerabilie e che possa essere considerato accettabile. La valutazione finale spetta al giudice che la valuterà caso per caso.

L’entrata in vigore del nuovo decreto 62/2024

Il 30 giugno 2024 è entrato in vigore il d.lgs n. 62/2024, che ha introdotto interessanti novità per assicurare alle persone disabili la rimozione degli ostacoli al pieno esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, delle libertà e dei diritti civili e sociali, in tutti i “contesti di vita, liberamente scelti”.
Il decreto dà attuazione ai principi e alle finalità dettati dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.

In particolare, l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli è stato esteso in qualunque contesto di vita, quindi non è più solo riferito all’occupazione e al lavoro. L’obbligo vale nei confronti della pubblica amministrazione, dei concessionari di pubblici servizi e anche dei soggetti privati, in ogni caso in cui: «l’applicazione delle disposizioni di legge non garantisca alle persone con disabilità il godimento e l’effettivo e tempestivo esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».

Al riguardo, il d.lgs n. 62/2024 ha introdotto la possibilità per la persona disabile di proporre istanza scritta ai soggetti indicati nella legge, quindi anche ai privati perché adottino un accomodamento ragionevole. Questa facoltà si estende all’esercente la responsabilità genitoriale in caso di minore o il tutore, ovvero l’amministratore di sostegno, se dotato dei poteri.

La persona con disabilità e gli altri soggetti richiedenti, che possono anche formulare una proposta concreta con riferimento all’accomodamento da adottare, partecipano al procedimento finalizzato all’individuazione dell’accomodamento ragionevole.

Nel caso di rifiuto da parte della pubblica amministrazione, del concessionario di pubblici servizi o del soggetto privato all’adozione dell’accomodamento ragionevole, la persona disabile e le associazioni legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 67 del 2006, possono chiedere all’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità di verificare se il rifiuto di accomodamento ragionevole rappresenti discriminazione.

Resta ferma in ogni caso la possibilità di agire in giudizio.

L’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità, istituita di recente con d.lgs 5 febbraio 2024 n. 20, sarà attiva solo a partire dal 1° gennaio 2025 e rappresenterà, nelle intenzioni del legislatore, il soggetto deputato a promuovere i diritti delle persone con disabilità in Italia e a ricevere segnalazioni sull’esistenza di fenomeni discriminatori nei loro confronti.


Contributo di Emanuele Pizzato